Damien Hirst al museo Nazionale di Napoli

Damien Hirst al Museo Nazionale

L’iniziativa, “Il tormento e l’estasi” di Damien Hirst, si inserisce, dopo la personale dell’artista tedesco Anselm Kiefer e quelle di Richard Serra, Anish Kapoor, Jeff Koons e Francesco Clemente, nell’ambito del progetto promosso dalla regione Campania “Annali delle Arti“, ideato e diretto da Achille Bonito Oliva e curato da Eduardo Cicelyn. Si tratta della prima rassegna antologica di Damien Hirst mai realizzata al mondo in un’istituzione museale.

Retrospettiva dell’artista inglese al Museo Archeologico Nazionale

 

Damien Hirst Napoli

 

Mostra Damien Hirst Museo Nazionale

Il tormento e l’estati” quando a Napoli arrivò la prima retrospettiva di  Damien Hirst

Più tormento che estasi. Più inquietudine che incanto sublime. È questa la sensazione che lascia la prima retrospettiva di Damien Hirst in corso a Napoli, al Museo Archeologico, fino al 31 gennaio.

Soprattutto per via delle “creazioni ansiose” come le definisce il filosofo Nigel Warburton. Ovvero opere con animali veri. Non una prerogativa di Hirst, sono stati usati anche da Chaim Soutine e Cattelan, per esempio. Ma per l’artista inglese contribuiscono ormai a farne un marchio di fabbrica.

Lo Young British Artist costruisce microcosmi in vetro. Universi chiusi, vicini e però estranei. Spesso nelle teche ci sono animali. Interi o sezionati. Conservati dalla formaldeide, «utopia chimica capace di impedire l’inevitabile decomposizione dei corpi organici, di fermare l’ultimo istante di pulsazione in un quasi per sempre».

È qui che si colloca più spesso Hirst. In quel momento di massima tensione che sta nel trapasso da questa vita alla morte, ma anche nella trasposizione su cui si basa l’arte concettuale: dalla vita all’arte. Passaggio che nelle sue opere non si chiude. E crea ansia. Inquieta.

Se manca lo squalo di cinque metri di “The physical impossibility of death in the mind of someone living”, che segnò il debutto di Hirst, c’è il set di dodici teche, disposte in fila e a uguale distanza, contenenti sezioni di due mucche.

E “Away from the flock”. Una pecora, iconografia dell’animale da sacrificio che nella formaldeide rimane sospeso per un tempo indeterminato. Tra vita e morte (o tra vita e arte?).

Altrove in una struttura di vetro e acciaio una testa mozzata di vitello termina in una larga striscia di sangue. Sopra c’è una graticola per gli insetti. Uno sciame di mosche (come punti a descrivere inarrestabili forme nell’aria) dilata e teatralizza gli appuntamenti immancabili di una vita: nascita, nutrimento, morte. È l’opera di più forte impatto.

Ogni due settimane due professionisti arrivano da Londra per ripulirla dalle mosche morte (nuova frontiera del restauro). Mosche morte usate anche in sciami su tele grumose in soggetti che hanno per titolo, sempre, una grande sciagura.

“Soggetti” più che singole opere perché Hirst ripropone la medesima sensazione in più creazioni, con qualche modifica. Per non dare troppa importanza a nessuna opera, sostiene. Perché anche da un punto di vista commerciale è più conveniente, dicono i maliziosi.

Ma l’opera di Hirst è anche altro. È sguardo irridente sull’illusoria fiducia nella medicina (il busto anatomico di sei metri, per esempio), nei farmaci (sugli scaffali, in ordine esclusivamente estetico), nelle pillole (pois su tele, tutti della medesima dimensione, ordinati. Il colore differente per ognuno trasforma le rassicurazioni riposte nell’oggetto pillola in un senso visivo di disagio).

E poi mandala psichedelici, alcuni in moto. Astuti e d’effetto. Grandi tele rotonde monocrome, con titoli sull’amore, nella cui vernice industriale è rimasta impigliata la libertà di coloratissime farfalle.

Assai interessante è “The acquired inability to escape”. Tavolo, sedia accostata, posacenere, mozziconi, un pacchetto di sigarette, un accendino. La struttura in vetro e acciaio è talmente vicina all’opera da restituire un senso di claustrofobia. Non ci sono animali, ma c’è inquietudine. Come c’è in “History of pain”, un pallone bianco tenuto dai ventilatori in sospensione sopra fulgide lame.

Hirst porta alle estreme conseguenze quanto Duchamp, con un gesto semplice e rivoluzionario, aveva compiuto, aprendo le porte dell’arte agli oggetti della quotidianità.

Non teme di essere approssimativo, inutilmente brutale, troppo attento all’effetto-che-fa più che all’ispirazione.

E sa che senza le opere ansiose non sarebbe Hirst. E così ha già annunciato una nuova scultura con vere vacche in croce. E un nuovo soggetto. Cui in un certo senso deve molto.